Hai un articolo da condividere o vuoi raccontare la tua esperienza nei death studies?
Scrivici: collaborazioni@nimonetwork.it
Irene, dottoranda presso l’Università di Perugia, con un percorso accademico dedicato ai death studies e all’antropologia della morte, ci racconta la sua esperienza e il suo intervento alla più importante conferenza europea sui death studies
Ciao, benvenuta a questa intervista di NIMO.
Innanzitutto presentiamoci! Chi sei e cosa fai? Di cosa ti occupi?
Ciao, grazie di questa intervista! Sono Irene Renzi e sono una dottoranda in antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Perugia. Vengo dalla provincia di Arezzo, in Toscana, ma ho abitato in Veneto per sette anni per l’università (triennale, magistrale e master) ed è ormai quasi un anno che abito in Umbria. Mi occupo di death studies già dalla mia laurea magistrale in antropologia, dove ho scritto una tesi sull’esperienza della morte a Venezia, specialmente dal punto di vista degli operatori funebri. In questo momento sto portando avanti una ricerca etnografica sulla tanatoestetica a Castiglione del Lago, un piccolo paese in provincia di Perugia, quindi sto continuando a focalizzarmi sui vari aspetti del lavoro degli operatori funebri.
Cosa ti ha portato ad occuparti di morte? Ci sono eventi particolari della tua vita che pensi ti abbiano portata su questa strada?
È successo tutto un po’ per caso. Ho sempre trovato particolarmente interessante studiare quegli argomenti un po’ più “tabù” o “non convenzionali”, mi piace l’idea di avere l’opportunità in questa vita di andare il più a fondo possibile nelle cose che mi intrigano e che mi appassionano. Lo stesso è sempre successo per vari aspetti legati alla morte, ma non avevo mai veramente preso in considerazione l’idea di occuparmene a livello accademico. Un giorno, però, mentre uscivo dallo studio di una tatuatrice in provincia di Venezia, dopo quasi tre ore di seduta, mi sono imbattuta per caso in un funerale e ho iniziato a chiedermi quale potesse essere l’esperienza delle persone che lavorano con la morte. In quei giorni stavo cercando di trovare un nuovo argomento per la mia tesi magistrale, in quanto la mia idea precedente era stata bocciata dalla mia relatrice: così, quello stesso pomeriggio mi sono recata a ricevimento proponendo il tema degli operatori funebri a Venezia. Il tema è stato accettato e per questo motivo oggi sono qui a rispondere alle domande di NIMO.
Perché, secondo te, i death studies sono importanti?
Credo che i death studies al giorno d’oggi siano particolarmente importanti perché hanno il compito di riportare il tema della morte e del morire all’interno della nostra quotidianità in modo organico e consapevole. Al giorno d’oggi siamo da una parte tendenzialmente portati ad allontanare ogni pensiero relativo alla morte (finché in un modo o nell’altro non ci si presenta davanti) e dall’altra costantemente bombardati di notizie, immagini, video e quant’altro di delitti, guerre e disastri a cui non ci si può sottrarre (e in alcuni casi è giusto così) ma che rischiano anche di renderci desensibilizzati. I death studies, intesi nel senso più interdisciplinare possibile, possono invece essere uno strumento molto importante per conoscere, capire e accettare meglio tutto ciò che riguarda la morte e che quindi, per forza di cose, riguarda anche noi. Sono un aiuto per sviluppare maggiore consapevolezza ed empatia nei confronti degli altri, ma anche nei confronti di noi stessi.
Che sfide e che soddisfazioni hai avuto occupandoti di queste tematiche?
La sfida principale per me è stata quella di iniziare a pensare sempre più spesso a un tema grande e complesso come quello della morte, sia in ambito personale sia in ambito accademico. A volte l’analisi, la riflessione e la presa di consapevolezza non sono proprio semplicissime. Di contro però ho anche avuto moltissime soddisfazioni, in primis nella mia ricerca riuscendo a conoscere da vicino le persone e le storie dell’industria funebre e offrendo loro, spero, un modo per far conoscere il proprio lavoro a molte più persone e per ricevere in questo modo più empatia e comprensione. In secondo luogo, parlando della mia ricerca ad amici e familiari mi sono resa conto che per molte persone quella verso la morte non è un’avversione, bensì una semplice mancanza di spazi e modi per parlarne e rifletterne con altri. Nel mio piccolo spero di essere riuscita a offrire quello spazio a qualcuno, ma in generale realtà come quella di NIMO sicuramente aiutano tantissimo da questo punto di vista.
C'è qualcosa del tuo lavoro che ritieni utile condividere con chi ci legge?
Gli operatori funebri, come in generale chiunque lavori a stretto contatto con la morte e il morire, sono figure ad alto rischio per quanto riguarda burnout e altre problematiche psicologiche, specialmente se sono inserite in un contesto dove non riescono a trovare il modo di parlare del proprio lavoro e delle proprie esperienze. Come ho detto prima, quindi, credo che sia importante informarsi sul lavoro che fanno, essere disposti ad ascoltare quando se ne ha la possibilità e, soprattutto, avere più empatia verso gli altri.
La DDD è la più importante conferenza di death studies in Europa, quale è stata la tua esperienza alla DDD di Utrecht?
Quella alla DDD è stata un’esperienza bellissima! Mi ha permesso sì di condividere parte della mia ricerca e della mia esperienza con un pubblico internazionale, ma anche e soprattutto di conoscere le ricerche e le esperienze altrui, sia durante i panel e le presentazioni ufficiali, sia durante le chiacchiere informali davanti a un caffè. Mi sento molto fortunata ad avere avuto l’opportunità di partecipare al convegno e di conoscere il contesto accademico internazionale, sicuramente ne sono tornata arricchita da molti punti di vista diversi! Inoltre, la cornice di una città bella come Utrecht ha sicuramente aggiunto tantissimo al fascino della DDD di quest’anno, anche se da nativa di una ragione particolarmente collinare ammetto di essere rimasta un po’ stranita dall’incredibile piattume della pianura olandese…
Durante la DDD hai parlato del quadro normativo funebre italiano, vuoi raccontarci qualcosa in più sul tuo studio?
Al convegno ho portato un intervento sulle peculiarità e le problematicità del quadro normativo italiano in materia di legislazione funeraria. È una parte della mia tesi magistrale, infatti ho portato come caso studio più specifico quello di Venezia e ho cercato di analizzare il tutto da un punto di vista più antropologico che giuridico. Uno dei focus principali è difatti come le leggi nazionali e/o locali influenzino la vita (e, in questo caso, la morte) delle persone e viceversa. Al momento mi sto occupando di un argomento diverso, ovvero quello della tanatoestetica, e il mio campo etnografico si è spostato da Venezia al Lago Trasimeno, ma l’argomento della normativa funeraria, della sua genesi e delle sue problematicità continua ad affascinarmi molto e probabilmente troverà il suo spazio anche nel lavoro che scaturirà dalla mia ricerca attuale.
C'è qualcosa che vorresti aggiungere?
Voglio solo ringraziare NIMO per il bellissimo spazio che ha creato e sta creando e per avermi permesso di avere l’opportunità di condividere questa bellissima esperienza!
E noi ringraziamo te, Irene, per aver condiviso la tua esperienza!
Donne e settore funerario: esperienze a confronto
Quattro donne del settore funerario, diverse per età, collocazione geografica e ruoli, si sono raccontate e confrontate in una tavola rotonda online di grande interesse. Servizio pubblicato sulla rivista "OLTRE" , Settembre 2025
Organizzato da NIMO Network, l’evento “Donne nell’industria funebre: Prospettive, Esperienze, Futuro” ha coinvolto:
Camelia Dragusin, tanatoesteta abilitata e autrice del podcast "Crimini, macabro e poesia". Oggi lavora come operatrice in un impianto per la cremazione.
Simona Paganessi, impiegata nell’agenzia funebre di famiglia.
Liliana Allaria, direttore tecnico di un’onoranza funebre, tanatoesteta, ha ricoperto molteplici cariche in Federcofit.
Anna De Venz, operatrice e cerimoniera funebre.
Una tavola rotonda online che ha fatto emergere problemi, soluzioni e strumenti utili per far crescere il nostro settore. Per me, è un vero piacere poter sintetizzare i punti più importanti emersi da questo confronto al femminile.
Spunti di riflessione per una nuova normativa
Argomento spinoso e sempre all’ordine del giorno, quello normativo, che affligge il settore da tempi immemorabili. Liliana Allaria ricorda ancora un intervento del dott. Cerato che, partecipando a un TANEXPO per parlare della legge nazionale, urlò tutto il suo disappunto: “Il motivo per cui a Roma non viene dato spazio al nostro settore è la superstizione!”. «Questo accadeva 30 anni fa – racconta Liliana – però non stento a credere che sia lo stesso motivo per cui ad oggi non abbiamo una nuova legge. In Liguria poi ci sono voluti anni per arrivare a una legge regionale, emanata nel 2020, più altri tre per il regolamento attuativo. Con il risultato che quando la legge è diventata operativa era già vecchia; basti pensare che nel mezzo c’è stato il Covid, con tutte le problematiche che ha evidenziato». Dello stesso avviso anche Simona Paganessi che, appena entrata nell’azienda di famiglia, si è impegnata a studiare a fondo la legislazione vigente: «C’è un mondo di cose che andrebbero cambiate! La legge nazionale è vecchissima e le leggi regionali cambiano completamente da una regione all’altra e non danno l’opportunità di lavorare in maniera sinergica e integrata».
Sinergia e integrazione mancano poi completamente tra il settore funerario e quello cimiteriale, come racconta Camelia Dragusin che, per ragioni di sostentamento economico, ha scelto di accettare un impiego presso un polo crematorio e si è trovata costretta ad abbandonare la professione davvero molto amata di tanatoesteta: «In virtù di un “conflitto di interessi” – tiene a precisare – di cui si parla tantissimo nei due settori e che non trova fondamento in alcuna norma vigente applicabile ai lavoratori subordinati. Personalmente avverto l’urgenza di una legislazione più chiara e più evoluta, più attenta al singolo: una normativa capace di comprendere che, nel 2025, la figura del lavoratore funebre pluricompetente non è solo possibile, ma auspicabile, perché può essere una risorsa, non un rischio, un ponte tra mondi che al contrario avrebbero bisogno di parlarsi di più, di cooperare e di guardarsi non con sospetto, ma con rispetto reciproco. Se non impariamo a guardarci come alleati, nel rispetto del lutto, allora anche la più rigorosa regolamentazione rischia di tradursi in una sorta di miopia amministrativa e burocratica e la legge in una gabbia, non in una guida».
Parola d’ordine: formazione!
Per fare in modo che il settore funerario possa progredire e migliorare, le donne coinvolte nella tavola rotonda sono concordi che la formazione sia la strada maestra da percorrere: «Anche se la legge lombarda è una di quelle più esigenti – racconta Simona Paganessi – siamo lontani anni luce da una preparazione che ci permetta di conoscere non solo la legislazione, ma anche gli aspetti psicologici, perché non è innato sapersi rapportare con persone che affrontano il dolore del lutto. Personalmente, mi ha aiutata tantissimo partecipare al Master Endlife a Padova, dove ho imparato moltissimo».
Anche Anna De Venz ha frequentato lo stesso master e lo descrive come un corso altamente professionalizzante, che le ha lasciato tanto: «Ho fatto diversi corsi di aggiornamento – specifica – in particolare con la Scuola Superiore di Formazione per la Funeraria. Quello di cui ho fatto maggior tesoro è il percorso di cerimoniere funebre per umani e per animali di Maria Angela Gelati. È stata un’esperienza bellissima e incredibilmente formativa».
La formazione viene vista anche come strumento per affrontare un problema sempre più sentito nel settore: il cambio generazionale. «In Federazione si dibatte costantemente su questo punto – interviene in proposito Liliana Allaria – Le nuove generazioni, per varie motivazioni, non sembrano interessate a subentrare nelle nostre attività di famiglia e ho più volte suggerito quanto sia vitale investire nella formazione, affinché possano nascere nuovi manager del funerario».
I problemi che dobbiamo affrontare
Sintetizzando i problemi emersi fino a qui: la mancanza di integrazione tra settore funerario e cimiteriale, il sempre più difficile ricambio generazionale e una normativa che non è assolutamente adeguata alle esigenze del settore.
Che altro? «La figura del tanatoesteta – racconta Camelia Dragusin – è ancora troppo trascurata nel lessico normativo e un po’ mitologica nel linguaggio comune. Poche persone sanno di che cosa si tratti realmente: non truccare, ricomporre e abbellire, ma restituire dignità al defunto, accompagnando la famiglia in un processo psicologico tanto invisibile quanto essenziale».
Inoltre, tutte e quattro le donne avvertono e riportano il senso di trascuratezza di cui il settore continua ad essere vittima. Come sintetizza molto bene Simona Paganessi: «Il nostro settore è costantemente ignorato e messo alla berlina. Vivo e lavoro in Valle Seriana, fra le più colpite dal Covid, e mi duole dover dire che non c’è stato nessun tipo di riconoscimento per il disagio psicologico subito dagli operatori. In quel periodo, gli unici commenti che ho sentito è che abbiamo guadagnato tanto. Nessuno ha speso parole per ricordare i morti del nostro settore e quelli che si sono ammalati, o per ringraziarci del nostro impegno e dei rischi che abbiamo corso».
E, infine, Anna De Venz si fa portavoce della diffidenza verso i giovani: «Nella mia piccola realtà, non ho mai sentito come un problema, ad esempio, il fatto di essere una donna, probabilmente perché mia mamma ha fatto da spartiacque e mi ha aperto la strada, visto che lavora in azienda come direttrice da oltre 25 anni. Quello che invece sento di più è lo stigma del giovane inesperto: le persone spesso stentano a fidarsi e chiedono la presenza dei membri storici, e questo nonostante la scuola, l’università, i master e i corsi che abbiamo svolto».
Essere donna in questo settore
Anche se le cose stanno cambiando (come Anna De Venz ha testimoniato, tante donne hanno aperto la strada), succede ancora troppo spesso di essere relegate dietro una scrivania: «Spesso siamo una presenza marginale – tiene a precisare Simona Paganessi – chiuse in un ufficio a occuparci di gestione amministrativa, a preparare necrologi e santini. Dovremmo avere un ruolo più attivo: prenderci cura delle persone in lutto e dei defunti stessi, con la delicatezza e l’empatia che ci contraddistinguono».
E infatti, come testimonia Liliana Allaria: «Io vesto, trucco, sposto, carico e scarico, oltre a occuparmi dei documenti. E in alcuni casi essere una donna è stato decisivo. Ricordo una bimba di 2 anni e mezzo: sono arrivata in camera mortuaria e nessuno si era sentito di vestirla. Me ne sono occupata io, come dei 1000 ragazzi che ho accompagnato, vittime di incidenti stradali. Tra l’altro la mamma della bambina aveva chiesto proprio ai carabinieri se c’era una donna che potesse fare questo lavoro».
Un’esperienza molto simile a quella vissuta da Simona Paganessi: «Fui io a occuparmi di un bambino morto appena nato. La madre mi chiese se avessi figli e quando le risposi che avevo una bambina, mi disse: ‘Allora solo tu puoi occuparti del mio bambino, perché solo tu puoi capire’. È stato difficile, però mi sono sentita di avere un ruolo importante, che i miei fratelli non avrebbero potuto ricoprire».
Per approfondire: il video dell’evento può essere visto, in versione integrale, sul sito di NIMO Network.
Ciò che le donne vorrebbero
Nel corso della tavola rotonda “Donne nell’industria funebre: Prospettive, Esperienze, Futuro” sono emersi alcuni desiderata, che le donne hanno voluto porre all’attenzione dei partecipanti. Ci tengo a metterli qui in evidenza, perché penso che possano tracciare un percorso utile a traghettare il nostro settore verso un nuovo futuro.
Ecco, di seguito, i sei desideri espressi:
Un maggiore dialogo tra settore cimiteriale e funerario, non per sovvertire le regole, ma per evolverle, dando spazio alla figura del lavoratore pluricompetente, che può rappresentare una grande risorsa.
Un ruolo più attivo e fattivo per le donne, affinché non siano più una presenza marginale, relegata all’ambito amministrativo, ma in prima linea, a prendersi cura delle persone in lutto e dei defunti stessi.
Una formazione che permetta di conoscere a fondo tanto la legislazione quanto gli aspetti psicologici, perché non è innato sapersi rapportare con persone che affrontano il dolore del lutto.
L’introduzione della figura dello psicologo ad uso di tutto il personale, perché chi è in prima linea, quando si affrontano picchi di tre/quattro ragazzi giovani in pochi mesi, ci si ritrova davvero in grande difficoltà.
Sarebbe auspicabile qualche incentivo statale che possa dare un sostegno alle imprese che vogliono investire nell’innovazione.
E per chi ha l’entusiasmo e la voglia di migliorare questo settore invitiamo ad unirsi alle Federazioni del comparto, perché c’è tanto lavoro da fare e possiamo farlo solo collaborando.
ARTICOLO PUBBLICATO SULLA RIVISTA "OLTRE"
In occasione dell'incontro tenutosi presso il Cimitero di Trento in data 12 Luglio 2025, la redazione del telegiornale di RTTR ha voluto documentare l'evento e intervistare il presidente e fondatore di NIMO, l'antropologo delle religioni Giorgio Scalici.
A cura di SO.CREM. BOLOGNA, Giorgio si presenta e ci racconta come è nata l'associazione NIMO
Giorgio Scalici è antropologo, studioso di riti funerari, appassionato esploratore del tema della morte e creatore di NIMO – Network Italiano sulla Morte e l’Oblio.
Tornato in Italia dopo differenti esperienze all’estero, si accorge infatti della mancanza di un centro studi, un luogo dove tutti coloro che si interessano al tema della morte – cittadini curiosi compresi – possano entrare in contatto e collaborare.
Prende quindi una decisione: «Se in Italia non esiste un centro studi interdisciplinare sulla morte, posso crearlo io». E oggi siamo qui, a ripercorrere il viaggio che l’ha condotto a creare NIMO e a lasciarvi qualche spunto di riflessione sul modo in cui viviamo la morte.
Quando è nata l’idea di creare un network italiano dedicato al tema della morte? A quali esperienze pregresse ti sei ispirato?
L’idea di NIMO è nata durante un convegno sulla morte organizzato a Padova da Ines Testoni, ma il germe di quell’idea si era innestato in me molto tempo prima. Dopo la laurea, infatti, avevo scelto di trasferirmi in Inghilterra per approfondire un tema che iniziava ad appassionarmi sempre di più: i riti funerari. Lì trovai non solo un terreno molto fertile per far germogliare i miei interessi, ma anche un ambiente estremamente più stimolante rispetto all’Italia. In Inghilterra, infatti, sono attivi molti centri studi dedicati ai Death Studies.
In Italia si inizia da qualche anno a parlare di Death Education – l’educazione alla morte; argomento certo stimolante, ma io non sono un educatore, sono un antropologo, quindi non mi posso occupare di educare alla morte. Nel direttivo abbiamo un’educatrice, Giulia Rondani, e per il futuro stiamo pianificando anche degli interventi di Death Education, ma al momento il focus resta sulla divulgazione dei temi della morte, quindi sui Death Studies.
Nel nostro paese si svolgono infatti moltissimi studi sulla morte: si affronta il tema dal punto di vista filosofico, antropologico, storico, artistico, letterario, archeologico, ma gli studiosi sono tutti scollegati tra loro e collaborano di rado, senza alcun “contenitore” che possa raggrupparli. Così, ho pensato: «Se in Italia non esiste un centro studi interdisciplinare sulla morte, posso crearlo io». E così è nato NIMO.
Quali obiettivi ti sei posto con la nascita di NIMO?
Il primo – e più importante obiettivo – è stato creare un luogo, sebbene virtuale, per mettere insieme tutte le persone che parlano, hanno interesse e studiano la morte, aperto non solo a chi ha un ruolo universitario e accademico, ma anche alle associazioni, alle aziende, ai privati, a chiunque abbia la passione per lo studio della morte. Per farvi capire: la nostra vice-presidente, Giada Paone, lavora in un settore molto diverso, eppure ha una passione infinita per queste tematiche.
Inoltre, desideravo che fosse un luogo di condivisione. Per questo, stiamo organizzando un evento online al mese in videoconferenza, oltre a una conferenza annuale, gratuita e aperta, che si svolge in presenza e online, per offrire a tutti la possibilità di partecipare. Invitiamo anche a iscriversi alla nostra newsletter, che considero uno strumento fondamentale per condividere notizie, corsi, eventi, pubblicazioni e approfondimenti sui temi a noi cari.
Dalla nascita di NIMO ad oggi, quali risultati sei riuscito ad ottenere? Quali le soddisfazioni?
Il risultato più importante è non essere più solo a portare avanti NIMO. Adesso ho alle spalle un consiglio direttivo composto da nove persone, ognuna con il proprio ruolo e compito, e stiamo facendo i primi passi per diventare Associazione.
Dal punto di vista delle soddisfazioni: sono tantissime! Rispetto all’inizio, è cresciuto sensibilmente l’interesse verso NIMO da parte sia dei professionisti (per il convegno di maggio 2025, abbiamo ricevuto il 60% di abstract in più rispetto all’anno scorso) sia delle persone comuni, che hanno voglia di parlare della morte, ma non ne hanno mai l’occasione (ai nostri eventi, i partecipanti pongono sempre tantissime domande).
Il commento che mi ha fatto più piacere in assoluto è stato: «Non pensavo che fossimo così tanti» e questo mi ha dato la conferma che con NIMO stiamo creando una coscienza di classe tra gli studiosi della morte, uscendo da quella sensazione di isolamento che io stesso ho sperimentato.
Che cosa potremmo imparare dalle altre culture con cui sei venuto in contatto?
Dopo la laurea, prima della mia esperienza in Inghilterra, ho trascorso un periodo di tempo in una comunità indonesiana e sono rimasto molto colpito dal loro modo di considerare la morte. Per i Wana di Morowali, Sulawesi centrale, il dolore è una parte inevitabile della vita, per questo lo rendono utile e positivo.
I funerali diventano occasioni per stare assieme: durano due giorni e tutta la comunità si riunisce attorno alla famiglia. È un rito che coinvolge tutti e ci si lascia andare a manifestazioni di dolore pubblico, finanche a momenti di violenza e distruzione – sempre in sicurezza – in modo da vivere il dolore della perdita con tutto il corpo.
Basandoti sulla tua esperienza di antropologo e di studioso del tema della morte, come pensi che venga invece vissuta la morte nel nostro Paese?
La morte, in Italia, non è parte della nostra vita: la lasciamo ai margini, ci pensiamo all’ultimo momento possibile o se ci ammaliamo. Non la elaboriamo nel corso della vita, per cui spesso la nostra concezione della morte non evolve insieme a noi.
Il funerale poi non riguarda più la comunità, in tanti casi non riguarda nemmeno la famiglia. I riti funerari sono diventati un modo per imbrigliare le emozioni, non per lasciarle uscire o guidarle. Non si lascia spazio al lutto: i dolenti devono tornare alla normalità e il più in fretta possibile. I riti laici, poi, sono ancora molto rari e spesso le famiglie si ritrovano a celebrare funerali religiosi anche se né loro né il defunto hanno mai messo piede in una chiesa.
E per il futuro? Quali progetti hai in cantiere per NIMO?
Sicuramente trasformare il Network in un’Associazione di Promozione Sociale e avere una sede fisica, poi creare una collana editoriale che raccolga gli studi sulla morte e continuare con gli eventi, che sono la spina dorsale di NIMO e sempre lo saranno.
Originariamente pubblicata su https://www.socrem.bologna.it/intervista-a-giorgio-scalici-creatore-del-network-italiano-sulla-morte-e-loblio/